Dal contesto organizzativo aziendale al corrispondente modello 231
Quale il futuro di un robusto ed adeguato modello 231?
A mio avviso il fattore comune fra un adeguato assetto organizzativo e l’implementazione di un modello 231 è indubbiamente l’approccio al rischio.
Un Modello 231 ben fatto si basa infatti su un risk assessment che tiene conto necessariamente di tutto il contesto aziendale. Fanno ormai parte delle storia vecchia i modelli 231 costituiti dalla così detta “parte speciale” e “parte generale“: il futuro è invece secondo me basato su modelli integrati con le implementate procedure ISO e con le altre necessarie procedure aziendali.
Non ci sono più modelli che “viaggiano solitari” per esigenze diverse, le procedure sono unitarie e vanno tutte verso una visione basata sulla gestione del rischio. Basti solo pensare all’art. 375 del codice della crisi di impresa che ha apportato modifiche all’art. 2086 codice civile aggiungendo al primo il seguente secondo comma: «L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».
Un modello 231, per essere considerato ben fatto, deve avere alle spalle una governance che “ci crede” davvero, che spende tempo con il consulente per creare un modello che rispecchi la realtà aziendale.
Modelli 231 già implementati: ne è pieno il web, ma sono realmente aderenti a quanto necessario? Tutelano davvero davanti ad un giudice? Ad un basso costo di implementazione (copia-incolla style) consegue un bassissimo tempo di realizzazione a fronte però di conseguenze devastanti in ordine alle responsabilità ed alle conseguenti sanzioni.